“MONDO FERMATI, VOGLIO SCENDERE!”

 

 

Ci sono dei momenti in cui vorresti mettere tutto in pausa, un freeze che ti liberi dalle difficoltà che stai attraversando. Vorresti una tregua, magari sogni di andare via per un po’, fare un viaggio che ti permetta di recuperare le energie e guardare alle difficoltà con distacco.

Di solito questi momenti arrivano dopo lunghi periodi di sforzi, tesi al raggiungimento di un obiettivo o una meta, che faticano ad essere conseguiti,oppure dopo molte circostanze nelle quali hai tentato a più riprese di risolvere un problema, senza riuscirci.

È piuttosto facile che in  momenti  come questi, si possano provare sensazioni di scoramento e il tutto sia caratterizzato da un profondo sentimento di solitudine.

Quello che porta maggiori complicazioni è il fatto che siamo umanamente predisposti a replicare le strategie di reazione o risoluzione a problemi, che abbiamo imparato e consolidato,  anche se queste si rivelano inefficaci. Un po’ come il criceto nella ruota, che si affanna come un matto, ma non si è spostato di un millimetro dalla sua gabbietta.

Come affermato da Einstein “se fai sempre le stesse cose, otterrai gli stessi risultati”… Quando ripeti delle strategie consolidate e queste funzionano,  perché non utilizzarle?  Ma in caso contrario, può essere adeguato metterle in discussione, in quanto il fatto di  non riuscire a lungo nei propri intenti, può diventare motivo di stress.

Ma prima di arrenderci, diamoci l’opportunità di riflettere su quali strategie abbiamo utilizzato sinora, per fronteggiare  una certa situazione e se gli sforzi cognitivi e comportamentali profusi, sono i soli possibili ad affrontare difficoltà ed eventi stressanti. Oppure vediamo se è possibile agire sul nostro sistema emotivo per evitare di generare più sofferenza del necessario.

 

Le strategie di “fronteggiamento”, risposta efficace o  capacità di risolvere i problemi sono state studiate, tra gli altri, dallo psicologo e  professore. R .S. Lazarus, tra la fine degli anni 80 e inizio degli anni 90 e definite come strategie di Coping.

Alcune strategie sono incentrate sulla focalizzazione del problema e la ricerca attiva di soluzioni, come ad esempio progettare e pianificare lucidamente degli step, per uscire da una certa situazione, e adottarne i relativi comportamenti; altre consistono nel ricercare persone o supporti materiali che forniscano aiuto e sostegno nella soluzione del problema; altre ancora suggeriscono di guardare alla situazione come ad una sfida con se stessi, utile per mettersi alla prova e non come una sfortuna da subire.

A questo proposito mi viene in mente una combinazione di queste strategie che potrebbe essere esemplificata da una persona che voglia perdere peso e decida di utilizzare questo stile:  Si programma una serie di step, si rivolge ad un dietologo per seguire un piano alimentare, acquista gli alimenti consigliati, si fa sostenere dalla famiglia per non sgarrare dal piano, magari mettendosi nell’ottica della sfida possibile.

Dal punto di vista emotivo  possono essere utilizzate ulteriori strategie, in modo attivo, quali ad esempio: dare un significato e un’interpretazione diversa al problema, vederlo in chiave positiva o con senso dell’ironia. L’umorismo è un potentissimo antidoto allo stress, molto spesso sottovalutato. Un’altra direzione possibile  è quella di accettare ciò che ci accade come parte della nostra esistenza, senza affannarsi nell’opporsi ad esso, un po’ come sciogliere il problema, invece che risolverlo e in qualche modo imparare a conviverci.  Oppure, tra le strategie che posso sperimentare c’è la ricerca di  persone che ci possano stare vicine  e ci possono offrire aiuto e sostegno emotivo.

Quanto spesso sappiamo ricorrere alla richiesta di aiuto o ascolto degli altri?

Esistono ulteriori metodi che possono offrire sollievo da un problema, soprattutto nel breve termine ma più difficilmente nel lungo, come evitare la situazione che ci affligge o evitare di far scattare in noi automatismi o abitudini negative che solitamente attiviamo in situazioni analoghe;  negare il problema, prenderne le distanze emotive, magari occupandosi d’altro per un pò. Queste possono essere strategie utili, quando tuffarsi immediatamente nell’azione, porterebbe a risultati controproducenti per mancanza di lucidità.

Questi sono soltanto alcuni esempi, le strategie di coping sino ad oggi identificate sono circa un centinaio, quindi ognuno di noi può esercitarsi ad applicarne di nuove.

C’è una frase di cui non conosco la “paternità” che ho visto girare spesso nei social, secondo cui, dopo aver provato il piano A e il piano B, bisogna ricordarsi che esistono altre 24 lettere…

 

 

 

Intervista ad Alessandra Marconato, autrice di “La foresta delle illusioni”

Alessandra Marconato è una collega, Coach, Trainer e autrice di questo affascinante libro. E’ stato un piacere intervistarla e svelare sul testo qualche curiosità in più…….

Ciao Alessandra, ho letto il tuo libro nella sua prima stesura un paio d’anni fa e ti ho caldamente suggerito di pubblicarlo. L’ho riletto  una volta pubblicato ed ora ho qualche domanda per te …

 Quando Taras entra nella Foresta, ricorda una poesia

“L’anima sta

con un piede nel passato e uno sul futuro.

Sfugge il presente in cerca di un perché.”

Spesso si attribuisce questo movimento tra passato e futuro e conseguente fuga dal presente, ai pensieri e quindi alla ragione. Qual è invece il senso del moto dell’anima per Taras?

Taras si ricorda della poesia nel momento in cui ha la consapevolezza che la Foresta infonde un senso di pace. L’anima di Taras è come “tirata” tra il passato, che non tornerà più, e un futuro che sa esistere e che non conosce. E si accorge che c’è un presente “bello”, fatto di serenità in cui vorrebbe rimanere perché, in quel particolare qui e ora, sta bene. Sfugge il presente perché è nello scorrere del tempo: è un po’ come voler afferrare l’aria ed è di questo scorrere del tempo che si chiede la ragione.

Quando hai utilizzato la metafora di chi ha l’aspetto di farfalla, ma cuore e mente di bruco? A chi ti sei ispirata? Pensavi al mondo aziendale?

Non solo al mondo aziendale. La vita è piena di finte farfalle e di persone che vogliono “fare” i maestri senza esserlo.

Nel coaching, nella consulenza o nella formazione che strumenti possiamo utilizzare per facilitare l’insight come accade al leone, nel racconto, che ad un certo punto capisce che con un semplice gesto, la porta della gabbia si apre?

Trovo che uno strumento molto potente sia quello delle domande. Molto spesso ci si affida al coaching, alla consulenza e alla formazione per trovare delle soluzioni. Le soluzioni vanno cercate e costruite e anche quando c’è un insight questo non piove dal cielo, anche se così può sembrare, ma deriva da un processo di consapevolezza. Uno dei modi per creare il terreno fertile per questa consapevolezza è porsi e farsi porre le domande “giuste”.

Quando Taras incontra il “popolo sereno” dove quello che conta è il viaggio e si parla ma non si decide mai, mi hai fatto pensare ad un’azienda, senza una chiara leadership o con una leadership troppo spostata sulla relazione, fino al limite dell’inconcludenza. È così?

Sì, è così. E c’è anche qualcosa in più. La leadership trova spazio se c’è, appunto, spazio. Si possono incontrare condizioni legate ai membri del team che non consentono l’affermazione della leadership per dinamiche, ad esempio, legate alle lotte di potere. Un leader c’è se ci sono dei follower…

Quando Taras e Mago incontrano il “popolo stupido”, con leggi statiche e incise sulle pietre, ho pensato al tema del giudizio e del pregiudizio,  che talvolta ci condizionano in maniera negativa. Che consigli potremo dare in proposito a manager e capitani d’azienda, per evitare di cadere negli stessi errori del “popolo stupido”?

C’è un testo che mi ha colpito da subito che è “Le leggi fondamentali della stupidità umana” di Carlo Maria Cipolla. L’ho usato spesso in corsi di formazione per parlare di lavoro di gruppo e negoziazione. Tutti noi possiamo cadere nella stupidità, provocando un danno a noi stessi per non lasciare un vantaggio ad altri. Il successo di altri non coincide con un nostro insuccesso. Il metro di paragone, credo, debba essere il fare il meglio con ciò che si ha e con le proprie risorse. Una volta ho letto su un social questa frase che ogni tanto cito “L’erba del vicino è sempre più verde … fino a quando non si scopre che è sintetica”.

“Prima di un condottiero c’è sempre un essere umano”, dice il cervo a Taras, il quale realizza di avere una vita fragile ed essere fallibile. Come si può conciliare secondo te l’immagine di un capo forte e invincibile con quella di un essere umano vulnerabile?

C’è una cosa che spesso sfugge della vulnerabilità: ammettere la propria consente agli altri di mostrare la loro vulnerabilità. Questo facilita notevolmente le relazioni e i flussi comunicativi, perché non ci si sente in “difetto” per non saper fare una determinata cosa o non essere abbastanza competenti.

Ho trovato particolarmente interessante il passaggio in cui il protagonista della storia si trova nel campo di battaglia. In che modo Taras trova l’equilibrio tra la dimensione dell’io e del noi? Ha paura, ma poi come trova il coraggio?

Capisce che alcune decisioni non le può delegare ad altri. Esiste l’io e il noi. Non sono in opposizione ed esistono entrambi.

Quanto c’è nella successione del “Capo” del “popolo litigioso” descritti nel racconto, del passaggio generazionale di un’azienda?

C’è il passaggio generazionale e ci sono le lotte per il potere, più in generale.

La selva e la morte sono temi che fanno tanta paura quanto sono inevitabili. Quanto meno li ritroviamo come rischi (le selve) e fine di qualcosa (morte) ad esempio un progetto, un percorso, una relazione. Qual è il segreto di Taras per superare questi ostacoli e guardare oltre?

Farci i “conti” e accettarli proprio come momenti inevitabili della vita (e dolorosi).

Al termine del libro il protagonista esce indenne dalla Foresta delle Illusioni, ma certamente cambiato. Porta con se molti apprendimenti. Qual è secondo te, il più prezioso, che Taras si porta via dal suo viaggio?

… prima o poi facciamo i conti con quello che siamo davvero … 

Grazie Alessandra!

L’Occidentali’s Karma del coaching

Un grande successo quello del mio conterraneo, il carrarese Francesco Gabbani, letteralmente esploso, dopo il successo dello scorso anno, a Sanremo 2017 con la sua Occidentali’s Karma.

Il testo della sua canzone, orecchiabile e ballabile, mette in evidenza il modus operandi di noi occidentali, nel prendere spunto dall’oriente e “rimaneggiarne” filosofie e pratiche.

La canzone ironizza e ci fa riflettere su quelli che sono innanzitutto i nostri bisogni. I limiti che la nostra civiltà ha evidenziato ed evidenzia nel trovare una sintonia, un’armonia con noi stessi e con il mondo.

Uno di questi limiti è di credere nella sovranità assoluta della mente, che tutto vuol capire e controllare.

La mente languisce per il passato e si agita per il futuro, non riuscendo a trovare pace nel qui ed ora.

Questo è l’elemento che più di ogni altro ci distingue dagli animali, dai quali, a volte in modo arrogante, prendiamo le distanze.

Ma, come cita Francesco nella sua canzone, “la scimmia nuda balla” e un po’ animali siamo anche noi e potremmo cogliere anche da loro il grande insegnamento di vivere nel presente.

In questo senso la riflessione viene spontanea su uno dei temi, secondo la mia esperienza, più affrontati nelle sessioni di coaching.

Che si tratti di impegnati manager, professionisti, venditori o dell’uomo della porta accanto, una grande spina nel fianco è quella di vivere in uno stato di perenne PRE-OCCUPAZIONE.

“Riuscirò a raggiungere quel budget?” “Troverò un nuovo lavoro?” “Devo essere davvero disponibile 24 ore al giorno per il mio cliente?”….

Si tratta di vivere nel futuro, occupandosi di ciò che temiamo prima che possa accadere, con la mente. Spostiamo energie anticipatorie e immaginiamo chissà quali scenari nefasti.

Questa operazione si rivela per lo più inutile e ci fa vivere in uno stato d’ansia che rende difficile prendere qualsiasi tipo di decisione. Ecco che a questo punto andiamo alla ricerca di “ricette”, pratiche o suggerimenti, presi in prestito da chi, su questi temi, è indiscutibilmente più avanti: alcune filosofie orientali.

Ma quali ansie e preoccupazioni turbano le scimmie con il pelo? Che cosa fanno i primati, come altri animali, di fronte a problemi e difficoltà? SE NE OCCUPANO! Non si perdono in lunghe ed elaborate farneticazioni, bensì agiscono per risolvere il problema.

Occuparsi di un problema significa finalizzare le nostre risorse per  risolverlo, con spirito produttivo e ottimista. Significa usare in toto  l’energia di cui disponiamo e che nel pre-occuparsi viene del tutto o parzialmente impiegata nelle ansiose elucubrazioni mentali di cui siamo gli inefficaci maestri.

Questo significa forse agire sempre d’istinto? Di pancia? Senza pensare troppo alle conseguenze delle nostre azioni? Certo che no!

Si tratta di integrare istinto e mente, ricordandoci che siamo dotati di entrambi e che possono essere combinati insieme, senza prevalere totalmente l’una sull’altro.

Da un lato la mente, dall’altro, l’abbiamo chiamato istinto, ma si tratta di un territorio, per noi occidentali, ancora molto da esplorare. Potremmo anche chiamarlo “insight”, intuizione o sesto senso, o come più ci piace, la sostanza non cambia.

Ecco, la sfida per noi occidentali, potrebbe essere proprio questa: vivere un po’ di più nel presente, utilizzando anche l’istinto e sviluppando maggiormente l’intuizione.

Altrimenti il nostro “Karma” potrebbe diventare proprio quello di ripetere costantemente gli stessi errori.

 

L’ABRACADABRA dell’attuazione

 

 

 

 

 

Che cosa consente ad un idea, desiderio o progetto di diventare realtà?  Cosa possiamo fare, sentire e pensare per assicurarci che ciò che vogliamo si realizzi?

Magia a parte, si tratta nientemeno dell’essenza del coaching …

Per rispondere a questa domanda, oltre ad aver riflettuto sulla mia esperienza personale, ho coinvolto alcuni miei clienti, con il loro permesso, rivolgendo loro, una serie di domande.

L’intento era quello di trovare punti comuni nelle loro esperienze e poter in qualche modo identificare delle risposte.

Ecco di seguito le domande:

  1. Quando un progetto che volevi realizzare, si è concretizzato in pieno?
  2. Quali erano le reali possibilità che si realizzasse, indipendentemente dal tuo apporto?
  3. Quali erano le tue condizioni mentali, lo stato emotivo e i pensieri che ne hanno permesso l’attuazione?
  4. Che cosa ha fatto la differenza?

Con la prima domanda si vuole collocare nello spazio e nel tempo un progetto reale e specifico. È utile descrivere un evento concreto,  con una buona dose di dettaglio. Pensare a tanti progetti che sono andati a buon fine, contemporaneamente e in modo generico risulterebbe dispersivo.

La seconda domanda è molto importante, perché permette di focalizzare quanto il progetto in questione(ad es una promozione sul lavoro) fosse in qualche modo “già nell’aria” e il nostro apporto sia stato minimo, oppure il contrario.

La terza ha un peso determinante in questa “analisi “, perché ci aiuta a focalizzare quali risorse abbiamo messo in campo, l’atteggiamento mentale, quello emotivo, i pensieri che abbiamo rivolto nei confronti di qualcosa che ha davvero funzionato. Cioè mette luce su

QUALCOSA CHE ABBIAMO SAPUTO FARE E CHE È QUINDI REPLICABILE!

Con l’ultima domanda si va ad esplorare in maniera più completa e approfondita ciò che è stato evidenziato con quella precedente. E può essere generativa di ulteriori insight (https://it.wikipedia.org/wiki/Insight

Mettendo insieme le risposte degli intervistati quello che ne è uscito, sembra decisamente interessante.

Innanzitutto  gli obiettivi o i progetti riportati erano per lo più sfidanti, cioè non impossibili, ma neppure caratterizzati da ottime possibilità di riuscita.

L’atteggiamento mentale era di convinzione, senza alcun dubbio di volerli realizzare, senza alcun “se” o alcun “ma”.

L’atteggiamento emotivo era sereno e caratterizzato da tanto piacere nel volere raggiungere l’obiettivo prefissato.

Non erano presenti paure eccessive che qualcosa potesse andare storto, ma un’ accettazione della possibile sconfitta. Le persone erano  pronte a riprovarci qualora non fosse andata bene al primo tentativo. Soprattutto erano prive di dubbi nel volere veramente raggiungere quella meta.

Se qualcosa non ci convince in pieno e siamo combattuti tra una o più alternative è meglio sciogliere le perplessità, altrimenti le possibilità di realizzare il nostro obiettivo si riducono notevolmente.

I pensieri in questi casi sono lucidi e caratterizzati da un senso di fiducia che ciò che vogliamo si possa realmente fare.

Nei casi presi in esame c’è stata messa in campo di azioni e c’è stato desiderio, ma senza eccesso di brama o frenesia.

L’attenzione è rivolta alla meta finale più che ai dettagli di percorso e l’atteggiamento generale è pervaso di una certa leggerezza.

In sintesi , cosa secondo questo piccolo campione di intervistati può aumentare le nostre possibilità di realizzare un obiettivo o un progetto che ci interessa?:

-Atteggiamento mentale di grande lucidità e convinzione che si possa fare

-atteggiamento emotivo di fiducia e serenità

-pulizia da dubbi e perplessità di volerlo veramente

-pulizia da paure di non farcela, (ci sarà una prossima volta)

-abbassamento dell’eccesso di importanza dell’obiettivo, lucida leggerezza

-Volontà e piacere di raggiungere l’obiettivo

Ho trovato questi spunti particolarmente utili per permettere più facilmente a ciò che vogliamo di entrare nella nostra vita e realizzarsi. Senza pretesa di essere esaustivi, ritengo che questi possano essere dei preziosi ingredienti per comporre la nostra magica pozione…

 

 

Una vita felice, ma non troppo

A chi non è mai capitato di sentirsi travolto da un mare di negatività? talvolta quasi con effetto domino, questo mare coinvolge un po’ tutte le aree della nostra vita. Qualche altra invece, a ben guardare, la negatività coinvolge uno o due ambiti, mentre il resto va, se non a gonfie vele, piuttosto bene.

Il punto è che nel momento in cui non ci rendiamo conto che la nostra vita è composta da molte aree e attribuiamo tutto il peso a quelle che vanno male, perdiamo una duplice opportunità. Da un lato la possibilità di ridimensionare ciò che non ci appaga, dall’altra di trarre dalle aree per così dire positive, nutrimento e linfa vitale.

Trovo interessante l’esercizio della ruota della vita, strumento piuttosto noto nel mondo del coaching e non solo. Con questo semplice esercizio potremmo immaginare il nostro presente come una torta, dove i vari ambiti della nostra vita  (salute, famiglia, finanze, lavoro, vita sociale, crescita personale, ecc.) possono essere rappresentati come spicchi che formano un cerchio.  Possiamo dare a ciascuna fetta una valutazione (es.da 1 a 10) e renderci conto a colpo d’occhio di che cosa funziona e cosa invece, necessita di qualche cambiamento. Potremmo anche realizzare che sono solo 2 o 3 le aree che dovrebbero essere riviste, mentre nelle altre abbiamo numerose soddisfazioni. Certo è che la ruota per girare al meglio ha bisogno di essere il più possibile omogenea   in positivo, per così dire in equilibrio.

 

Indubbiamente ci sono tanti modi per intervenire, dopo aver scattato questa foto. Uno dei più interessanti e meno esplorati è, secondo me,  quello di lavorare su una osmosi consapevole. Si tratta di  portare contaminazioni positive, nelle aree negative e non l’inverso, come talvolta capita, quasi spontaneamente.

In altre parole, cosa succederebbe se attingessimo a piene mani e consapevolmente dalle aree che funzionano, per  far funzionare meglio quelle che non funzionano?  Non si tratta di essere ottimisti e positivi a tutti i costi, ma di apprezzare quello che di buono c’è e trovare anche grazie a questo  l’energia per intervenire su quello che non va.

E se non c’è niente che funziona? Bhè l’esercizio della ruota, riserva sempre qualche sorpresa, a volte quello che non ci soddisfa è a 5 o 6 e può essere incoraggiante “vedere” che tutto sommato si è a metà strada. Comunque da qualche parte si deve iniziare, se vogliamo cambiare alcune cose della nostra vita.

Dal punto di vista pratico, ecco alcuni spunti, spero utili, per lavorare sull’osmosi positiva di cui abbiamo parlato:

  • Dare spazio al buono che c’è: si tratta di riconoscere quanto funziona e goderlo a pieno. Se capisco che alcune attività o momenti hanno un effetto ricreativo su di me, posso pianificarli , come appuntamenti importanti, da vivere senza sensi di colpa, appena possibile. Ad es. mi ricarica uscire con gli amici? Fare sport? Andare a teatro? Stare con i figli? Quanto spazio ha tutto ciò nella mia settimana? Posso ricavare qualche momento in più per questo, sapendo che mi sarà prezioso anche su altri fronti?
  • Iniziare a lavorare sulle aree che necessitano di un miglioramento: se qualche spicchio della mia vita ha ottenuto un punteggio molto basso, la prima cosa che posso fare è definire i particolari di che cosa non sta funzionando e pormi degli obiettivi di miglioramento e le relative azioni. Ad es. La famiglia ha un punteggio negativo? In quale situazione in particolare, rapporto di coppia? Relazione con i suoceri o con i figli? E in caso, cosa potrei fare di diverso, per modificarli cominciando da subito?
  • Fare un inventario delle proprie risorse: Posso cominciare ragionando sulle cose che funzionano e chiedermi grazie a che cosa, avviene tutto ciò. Cosa sto facendo per far funzionare bene questa mia area? Quali talenti sto mettendo in campo? Li sto utilizzando nelle aree che non mi soddisfano? Se non è così, come potrei cominciare a farlo proficuamente?
  • Abolire la lamentela: Talvolta, quando siamo concentrati su ciò che non ci gratifica, ci lamentiamo con noi stessi e con gli altri. Ci ripetiamo quanto vorremmo che le cose fossero diverse. Alla domanda “come va?” ci verrebbe spontaneo rispondere “male”. Cosa succederebbe se pensassimo alle fortune che abbiamo, agli obiettivi raggiunti e a quello che sta portando del buono nella nostra vita?
  • La gratitudine: Essere grati per quello che di positivo c’è nella nostra vita, non è molto di moda…Eppure per essere contenti bisogna innanzitutto apprezzare e ringraziare (Dio, l’universo, il destino, quello che vogliamo). La gratitudine è una potente calamita per le cose positive e ci permette di allenare il muscolo della capacità di ricevere. Possiamo ripercorrere le cose positive vissute nella giornata mentalmente, oppure tenere un piccolo diario.
  • Celebrare i successi: questo punto è molto vicino al precedente. Essere grati per quanto si è raggiunto e dare onore a questo. Senza ritenerlo “scontato”. Se siamo stati bravi è utile riconoscerlo, premiarsi e magari condividere questo momento con chi si ama.

Così facendo, a poco a poco gli aspetti positivi e vincenti possono contaminare quello che non ci soddisfa e prendere sempre più spazio. Sarà più facile cambiare prospettiva ed aumentare la propria capacità di agire per modificare quello che non va. Insomma “Una vita felice”. Ma non troppo.

 

 

 

Non aprite a quel “talento”!

 

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Può sembrare illogico, incredibile, paradossale, ma la paura di avere successo può essere proprio dietro l’angolo per molti di noi, pronta a frenare la nostra realizzazione personale.

Sin da bambini siamo indirizzati ad omologarci agli standard della programmazione scolastica, di un sistema che solitamente lascia poco spazio a tutto ciò che è unico, divergente, al pensiero laterale, a chi ha abilità e talenti non ascrivibili alle capacità puramente accademiche.

Ma che cos’è il talento? Solo pochi fortunati ne possiedono? Come si lega al successo?

Secondo alcuni il talento coinciderebbe con l’intelligenza. Pensiamo alla fortuna non ancora esaurita del QI (quoziente intellettivo) che misurerebbe solo ed esclusivamente quella linguistica e quella logico-matematica. In realtà sappiamo almeno dagli anni ‘80, che esistono vari tipi di intelligenza .

Ad Howard Gardner va il merito di aver riconosciuto multiple forme di intelligenza: Intelligenza logico-matematica,  Intelligenza linguistica, Intelligenza spaziale,  Intelligenza musicale, intelligenza cinestetica,Intelligenza interpersonale, Intelligenza intrapersonale, aggiungendo successivamente quella naturalistica e quella esistenziale.

Grande il lavoro di Daniel Goleman, il quale sfida  l’idea che chi possiede un’ottima intelligenza accademica abbia realmente successo nel mondo del lavoro, dimostrando invece lo stretto rapporto tra successo e intelligenza emotiva. Per la gioia dei fanatici della misurazione, esistono anche test per misurare il QE (quoziente emotivo).

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Il fatto di possedere una forma di intelligenza, magari misurabile, secondo me non è necessariamente collegata alla possibilità e alla volontà di esprimerla.

Per chiarire questo concetto mi sembra utile schematizzarlo  così:

ATTITUDINE O CAPACITÀ (predisposizione, idoneità) “ho la possibilità e la dotazione per farlo”

ABILITÀ (saper tradurre apprendimenti e idee in azioni) “ Lo so fare”

COMPETENZA  (attitudine, abilità, motivazione, consapevolezza di quando agire la competenza) “Lo posso fare, lo so fare, lo voglio fare, capisco quando farlo”

TALENTO Competenza in stato di flusso[1], che porta a risultati spesso brillanti e soddisfacenti, “sono competente, non vedo l’ora di farlo e mi diverto”

Ecco che cosa distingue, secondo me,  una persona competente, da una talentuosa: lo stato di flusso e i risultati spesso brillanti e soddisfacenti che ottiene, detto in altre parole significa: fare le cose con un gran gusto, andando nella direzione della piena realizzazione di sé, senza avere quasi la percezione del tempo che passa.

Solo pochi fortunati possiedono i talenti? Si e no, più che di possesso di talenti io parlerei di possibilità di talento, che abitano abbondanti e varie in ognuno di noi, il problema vero è che non tutte le persone seguono la strada della piena realizzazione di sé. O perché non l’hanno identificata o perché non credono di poterci arrivare.

Basti pensare a coloro che hanno seguito le orme dei genitori nella professione , più sulla scorta del condizionamento, che non per reale vocazione. Magari sono anche competenti , ma sarebbero stati talentuosi  in altre vesti.

Come legare il talento con il successo?  Quando una persona  è contenta di quello che fa, si trova in stato di flusso, trasmette entusiasmo e ci mette energia positiva, lì, si aprono le porte della realizzazione di sè E IL MONDO, IL PIÙ DELLE VOLTE SE NE ACCORGE…

Dopodichè ognuno ha la sua personale accezione di successo. Per qualcuno il successo si traduce in notorietà o affari che vanno a gonfie vele o magari possibilità di esprimersi  al meglio.

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In ogni caso il talento e il successo esprimono  una grande potenza, rendono visibili, amplificano le nostre caratteristiche quasi fossero una caricatura. Siamo i veri noi stessi, urlati al mondo. E dall’alto di quella vetta che succede? Magari è più facile cadere rovinosamente?

Ed è esattamente questo che fa paura, esprimersi in maniera autentica, forte, magari lasciare un segno. Siamo tutti disposti a scegliere questa strada o talvolta ci sembra più accogliente il nido caldo della mediocrità?

[1] Secondo D. Goleman lo stato di flusso è una sensazione di gratificazione e benessere nella quale gli individui sono totalmente assorbiti da quello che stanno facendo. Da un lato si perde la consapevolezza di sé stessi e ci si spoglia da ansie e preoccupazioni. Dall’altro l’individuo mostra un controllo magistrale su ciò che sta facendo e le sue risposte sono perfettamente sincronizzate con le esigenze delle circostanze.

La prospettiva ecologica del coaching

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Qualche giorno fa mi è capito di guardare un video, nel quale il narratore evidenzia gli aspetti più critici della società e del tempo in cui viviamo e ci invita ad aprire gli occhi su cosa ci impedisce di fare e di essere quello che vorremmo; ogni giorno ripetiamo gli stessi schemi  senza capire bene dove stiamo andando e che in fondo siamo tutto tranne che liberi; Ciò che ci serve davvero per vivere e cioè: cibo, acqua e terra, è posseduto dalle società, spesso multinazionali, una elitè spietata volta solo a farci consumare; Seguiamo delle regole che non abbiamo del tutto condiviso, in qualche modo condizionati sin da bambini dalla famiglia e dal sistema scolastico, che ci propongono un modello a cui conformarci.

In tutto questo mi hanno  molto colpito alcune frasi come  “Cresciuti per non essere mai niente di speciale in questo mondo, per non creare differenze”, “Abbastanza intelligenti da fare il nostro lavoro, ma non da chiederci perché lo facciamo”, “lavoriamo duro, ma non abbiamo mai tempo per vivere la vita per cui stiamo lavorando”; si prosegue poi evidenziando come andando avanti in questo modo, devastiamo e inquiniamo il pianeta, sfruttiamo e deprediamo animali e risorse naturali. Nel video ci sono immagini forti che ci portano a riflettere su cosa accadrà quando questo sistema arriverà al collasso

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Non vorrei soffermarmi sulla negatività o meno di questa prospettiva,  ma sul fatto che davvero siamo vittime di ingranaggi a cui non ci sembra di partecipare, facciamo molte cose senza soffermarci a riflettere se è proprio ciò che vogliamo e va meglio per noi. Tante scelte ci sembrano obbligate e ci piacerebbe sentirci più liberi.

Ecco che in questa riflessione mi è sembrato ancora più di valore l’approccio che in questo senso definirei “ecologico” del coaching.

Nella relazione di coaching un grande valore aggiunto sono proprio quelle domande del coach che normalmente da soli non ci facciamo e che ci aiutano ad aprire la mente alle scelte e alle opportunità alle quali siamo ciechi e sordi. Il fatto di sentirci immersi negli ingranaggi è ciò che ci fa dire che è IMPOSSIBILE, NON CI SONO ALTERNATIVE, ABBIAMO SEMPRE FATTO COSI’ (come se questo fosse di per sé un valore).

L’idea che ne deriva è che il coaching aiuta a fare una sorta di “pulizia” mentale di alcune convinzioni che ci stanno intossicando, che ci impediscono di vedere oltre e che non ci fanno sentire liberi.

La pulizia mentale ci permette di essere più lucidamente connessi con noi stessi e di conseguenza con gli altri, scavare nei nostri desideri autentici, uscire dalla logica di attesa di cambiamento per passare a quella del “cosa possiamo cambiare noi per primi?”.

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Se quello che viviamo tutti i giorni non ci piace potremmo iniziare dal chiederci “cosa vorrei?”  “cosa posso fare?”, per riuscire a vedere più chiaramente le opportunità e ridimensionare gli ostacoli.

E ancora una volta, è….. Questione di coaching

Il video: il mondo in cui viviamo

Punti di vista

 

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“Il collega che mi evita è sicuramente invidioso”; “se in famiglia non mi ascoltano è perché non ci tengono a me”; “Il capo non mi assegna quel  lavoro perché  ha scarsa fiducia nelle mie capacità…”

Ecco alcuni esempi di conversazioni interne che definiscono dei punti di vista, legittimi, ma che hanno portato ai protagonisti delle conseguenze non proprio desiderabili.

Mario, pensando che tutti siano invidiosi di lui, continua a mettere in atto dei comportamenti diffidenti e schivi che lo hanno in parte emarginato dal suo gruppo di lavoro.

Elena appesantisce con noiose lamentele tutte le sere la sua famiglia, che ormai satura non l’ascolta più.

Gianni trasmette talmente tanta insicurezza con il suo modo di fare, con i mille dubbi e domande, che il suo capo è sempre più titubante nell’affidargli nuovi incarichi.

E se la storia fosse un’altra?

L’essenza del lavoro del coach sta proprio qui, nel proporre e mostrare al suo cliente nuovi punti di vista. Insomma sintetizzando al massimo l’attività del coach potrei dire che si tratta di  “un sovvertitore di punti di vista”, non per indurre le persone a cambiarli, ma per offrire altre vie, nuove scelte.

Ma vediamo cosa ci fa fare il punto di vista che abbracciamo e a cui abbiamo, più o meno inconsapevolmente, aderito.

Innanzitutto ci fa formulare dei giudizi, ci facciamo un’idea delle cose e ne diamo un’interpretazione tutta nostra. Fin qui non ci sarebbe nessun problema, se non che ci convinciamo che la nostra idea sia indiscutibilmente vera. La nostra interpretazione ci fa da guida nel mondo, come fosse un laternino nel buio. Così,  intraprendiamo il nostro sentiero. Se poi è quello sbagliato lo scopriremo alla fine.

Compagni fedeli di questo cammino sono gli stati d’animo, spesso derivati dagli stessi  giudizi formulati in precedenza e discendenti diretti del nostro punto di vista. Talvolta sono proprio loro, gli stati d’animo, che ci fanno prendere una direzione piuttosto che un’altra. In base a come ci emozioniamo, agiamo.

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Qualche  volta però  le nostre azioni non sono proprio opportune come vorremmo, oppure sono i risultati che esse ottengono che non ci piacciono. È così che finiamo in un vicolo cieco.

Avere altri punti di vista da valutare è un po’ come accendere la luce nel sentiero buio e scegliere sin dall’inizio “l’occhiale” a noi più funzionale con cui guardare il mondo e raggiungere i nostri obiettivi.

Cambiare punto di vista può essere la chiave per dare una svolta a ciò di cui non siamo soddisfatti e intraprendere il cammino a noi più congeniale.

Vediamo a questo proposito cosa possiamo fare con il supporto del coach:

-“vedere” un’altra versione dei fatti

-Modificare lo stato d’animo che ci fa stare male o è disfunzionale al raggiungimento dei nostri obiettivi

-agire in modo differente

-ottenere nuovi e  più soddisfacenti risultati

 

duck-rabbit_illusion

L’illusione anatra-coniglio, a seconda del punto di vista dell’osservatore la figura può apparire come un’anatra o un coniglio (wikiquote)