Chi guida l’autobus?

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A volte ci capita di sentirci bloccati, di  non avere chiaro cosa fare per uscire da una situazione che non ci piace. La situazione è stagnante e ci crea un livello più o meno intenso di sofferenza.  Sentiamo di dover fare qualcosa,  ma poi a livello pratico, eccoci lì, sconfitti, arresi, negativi.

Quello che avviene è che ci sentiamo vittime della situazione che stiamo vivendo o di noi stessi;  vorremmo tanto reagire, ma non sappiamo cosa fare. Prima o poi a questo stato d’animo subentra la rassegnazione, non c’è niente da fare.

Mi è capitato di vedere coachee che vivono  questo empasse e si sentono ad un passo dalla resa.

Nella pratica di coaching ho trovato molto utile spiegare che i pensieri negativi di cui le persone spesso si sentono vittime, sono prodotti dalla nostra mente e, udite udite…

NOI NON SIAMO LA NOSTRA MENTE!

Siamo molto di più, la mente è uno strumento, molto potente, con il quale talvolta ci identifichiamo e di cui ci sentiamo in balia, ma è solo un “pezzo”.

Come dice Richard Bandler “Chi guida l’autobus?”, se noi non prendiamo saldamente in mano il timone della nostra vita, lo farà qualcun altro.

Noi siamo in grado di “gestire”, manipolare, comandare i nostri pensieri, perché la mente fa parte di un tutto più ampio. Il nostro essere è fatto anche di corpo, anima, spirito. E’ quantomeno riduttivo identificarsi “solo” con la mente e con i propri pensieri, lasciando a lei, indisturbata la guida dell’autobus, magari andando a sedersi in ultima fila. La mente è preziosa, ma solo se sappiamo farne buon uso.

Il punto è come “dominare” la propria mente e fare in modo che sia al nostro servizio e non viceversa?

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Di seguito qualche spunto:

  1. La consapevolezza: prendere coscienza del fatto che la mente è uno degli elementi in gioco e che esiste una nostra volontà di carattere più ampio, che definisce direzioni e obiettivi di cui la nostra mente può supportare il raggiungimento
  2. Utilizzare uno “switch” , da noi messo a punto, che ci aiuti a cambiare punto di vista, quando ci rendiamo conto che il pensiero che stiamo utilizzando non ci serve e non è utile ai nostri obiettivi. Lo switch può essere una frase, un’immagine, un colore, un piccolo rito (come ad es. alzarsi dalla sedia e sciacquarsi il viso), un motivo musicale, un mix di uno o più degli elementi precedenti o ciò che per noi funziona meglio
  3. Osservarsi “da fuori”, come se non fossimo noi i protagonisti della situazione, ma guardassimo noi stessi , protagonisti di un film. Questo può aiutare a prendere le distanze dal problema da cui ci sentiamo afflitti
  4. Saperne di più : cioè leggere, articoli, libri o frequentare corsi sull’argomento, che ci aiutino a capire come imparare a gestire i nostri pensieri e utilizzare al meglio la nostra mente
  5. Fare esercizio: esercitare la propria volontà passando da pensieri per noi limitanti e disfunzionali ad altri potenzianti (che ci danno possibilità di ottenere ciò che vogliamo)
  6. Celebrare i successi: ogni volta che riusciamo nel nostro intento di cambiare punto di vista e ci rendiamo conto che funziona, celebrare il successo con un piccolo premio o una gratificazione.

Nessuna pretesa di essere esaustivi, ma prendere coscienza del fatto che siamo seduti come passeggeri dell’autobus e non lo stiamo guidando è già un piccolo grande risultato!

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Una sessione per due

Quando e come una sessione di coaching, con due membri di un gruppo di professionisti, può rendere ancora più efficace lo strumento.

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Metti un gruppo di professionisti, dove non ci siano le condizioni per realizzare un “Team Coaching”.  Metti due membri del team che abbiano partecipato ad un percorso individuale di coaching ed essendo entusiasti della metodologia, siano curiosi di sperimentarne altre possibili applicazioni. Metti che i due coachee decidano di sperimentare una sessione a due.

Quello che ne è emerso è stato sorprendente…

L’antefatto

Mi è capitato di fare sessioni individuali di coaching con due membri di un team di professionisti, che per esperienze e formazione sono cresciuti dal punto di vista relazionale e gestionale in modo tangibile.

In effetti il team si è trovato a sviluppare nel tempo un gap importante,  tra i componenti che hanno ampliato le loro abilità e la loro visione e quelli che non hanno condiviso le stesse esperienze.

Quello che ne deriva è una duplice anima del team, che diventa una sorta di “mostro a due teste”, a detta dei protagonisti ed anche dei loro clienti.

Se è pur vero che in una condizione analoga lo strumento ottimale possa essere rappresentato dal team coaching, i differenti atteggiamenti dei componenti, sono di ostacolo ad una scelta del genere, a meno che il team ritrovi gran parte dell’allineamento “perduto” .

Ed è questo il desiderio dei protagonisti della sessione a due che credono ancora nel team e definiscono questo come obiettivo.

I risultati

Durante la sessione i due coachee si rendono conto che l’entusiasmo per le esperienze fatte e per la crescita realizzata  finora, li ha portati alla convinzione che il loro punto di vista fosse irrimediabilmente “il migliore” e da qui la tendenza, in buona fede,  a proporre in modo “comprimente” le loro idee, nei confronti degli altri componenti del gruppo. Questa situazione ha portato i due coachee a lasciare sempre meno spazio agli altri. Questa consapevolezza si sviluppa proprio nel corso della sessione a due.

“Armati” di questa nuova prospettiva i protagonisti intendono reintegrarsi agli altri, proponendo idee , ma con la consapevolezza che sia indispensabile lasciare agli altri uno spazio di metabolizzazione delle loro proposte. Realizzano di essere  disposti ad accettare l’eventuale visione critica dei colleghi, come elemento di valore e non come terreno di scontro. Questo diventa il loro “piano d’azione”.

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I feedback dei due protagonisti

Al termine della sessione i due protagonisti si dichiarano  molto soddisfatti, ritengono di aver acquisito nuovi strumenti di interazione con i colleghi e mi offrono un feedback sullo strumento, paragonandolo anche alle sessioni individuali, di cui sono stati protagonisti in precedenza.

-Lo strumento è stato ancora più potente e incisivo rispetto alla sessione individuale

-le acquisizioni e le consapevolezze di questa sessione ci portano ad abbandonare la dinamica “le abbiamo provate tutte” e ad andare più incontro agli altri membri, puntando a lasciare loro più spazio

-non ci siamo influenzati o condizionati reciprocamente, ma abbiamo arricchito in modo esponenziale i punti di vista e le possibilità d’azione

-Parliamo spessissimo tra di noi di queste problematiche, ma quello che è avvenuto in sessione è del tutto inedito e ci ha portato a definire nuove soluzioni

– ci è sembrato importante aver lavorato individualmente in un percorso di coaching, per fruire al meglio della possibilità che offre una sessione a due

Differenze tra l’esperienza individuale e quella a due

-nella sessione individuale il coachee, lavora su di sè e sulle sue possibilità d’azione, nella sessione a due si lavora su obiettivi comuni, a cui entrambi intendono partecipare

-condividere punti di vista e strategie d’azione, rende i due membri del gruppo più efficaci ed incisivi, pur avendo riportato le stesse problematiche nelle sessioni individuali

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Le dinamiche di sessione

-la sessione dura 4 ore (si possono ottenere buoni risultati anche in  2 ore e mezza/ 3)

-più complessità di gestione, ma anche più ricchezza di prospettive

– gli obiettivi condivisi sono rafforzati dal commitment dei due interessati

Una storia a lieto fine….continua

“Cibo spazzatura”… per la mente

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“Conoscete certamente il proverbio: “siamo quello che mangiamo!” Io l’ho rielaborato e preferisco dire “diventiamo ciò che studiamo”. In altri termini, fate attenzione a quello che imparate, perché la mente è tanto potente da farci diventare simili a quello con cui la nutriamo.” (Robert T. Kiyosaki)

Ormai è semplice: mi serve una qualsiasi informazione e la cerco su google. Scuola, lavoro o semplice curiosità, trovo tutto di tutto. Qualche amico ironizza sul fatto che ti stai prendendo cura di un problema di salute con “Dott. Google”, alludendo al fatto che prendi informazioni su disagi o malanni su internet. Non che questo sia un male in assoluto, ci sono indiscutibili vantaggi ad avere accesso facile a ogni tipo di informazione, ma fruire solo di informazioni veloci, non approfondire mai e prendere tutto per buono è un po’ come mangiare ogni giorno al fast food.

Un altro strumento ambivalente è la tv, ci sono tante opportunità di approfondimento e di informazione, ma alcune proposte sono nella migliore delle ipotesi vuote e inutili, in altri casi addirittura “tossiche”.

Basti pensare alle notizie di violenze e catastrofi che sono spesso il leitmotive di telegiornali e programmi di approfondimento e che, assorbite passivamente, rischiano di bombardare la mente con ogni sorta di negatività. Non si tratta di essere ciechi o indifferenti a ciò che accade intorno a noi, ma consapevoli che un’esposizione univoca crea un effetto univoco.

Blog, articoli veloci, chiacchiere veloci mediate da social o whatsapp, la conoscenza e le informazioni corrono al ritmo frenetico della tecnologia.

Posto che talvolta il pranzo del fast food risponde ad un bisogno di contenere i tempi e che può essere un’alternativa sfiziosa al solito pranzo o la solita cena , è sulla possibilità di abuso che credo sia importante fare una riflessione.

Nella formazione, come nel coaching possiamo immaginare di essere ad un banchetto con ogni sorta di proposta nel buffet, sta a noi scegliere ciò di cui abbiamo bisogno in quel momento. Si tratta di riconoscere con che cosa vogliamo nutrire la nostra mente.

Ma siccome “il maestro appare quando l’allievo è pronto”, secondo un intrigante detto buddista, ci sono dei tempi “tecnici” di proposta, di digestione e di metabolizzazione dei concetti che spesso mal si adattano alla filosofia del fast food.

Uno dei rischi è di “consumare” solo e soltanto le informazioni che servono per risolvere un problema nell’immediato, senza darci la possibilità di acquisire consapevolezza e visione d’insieme.

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In azienda, proponendo un percorso di coaching di 8 sessioni,  da fruire in un periodo di 4/6 mesi, la perplessità del cliente è stata espressa in “ci vuole così tanto tempo? Non è possibile fare tutto in un paio di mesi al massimo?”.

“Certo, tutto si può fare, ma si tratta di cambiare punti di vista, convinzioni, capire che forse è più funzionale modificare il proprio atteggiamento, sperimentare delle azioni sul campo e valutare cosa ha funzionato e su cosa è ancora necessario assestare il tiro. Lei potrà identificare e modificare alcune delle sue convinzioni limitanti e poco funzionali in un paio di mesi?”

In altre parole, possiamo cambiare noi stessi in poco tempo?  Cambiare abitudini che fanno parte di noi da decenni e ottenere cambiamenti stabili in poco tempo?

A questo proposito penso che la Natura possa offrirci una risposta interessante, da formulare come domanda: possiamo far crescere un albero di mele (mela anche come simbolo di saggezza e conoscenza), in una notte?

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Le abitudini e i cerchi nel grano

Ogni abitudine rende la nostra mano più ingegnosa e meno agile il nostro ingegno.
(Friedrich Nietzsche)

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Ogni abitudine rende la nostra mano più ingegnosa e meno agile il nostro ingegno. (Friedrich Nietzsche)

I cerchi nel grano, in inglese crop circles o agroglifi, sono quel curioso fenomeno, per cui nei campi di coltivazioni cereali, le piante abbassate ed appiattite, formano dei disegni. Questi disegni visti dall’alto danno origine a forme geometriche, suggestive, talvolta complesse.

A parte l’interessante dibattito tra i sostenitori che questo fenomeno sia opera squisitamente umana, realizzata con strumenti semplici, tempi contenuti e coloro che ritengono che siano messaggi provenienti da civiltà aliene, trovo molto potente la metafora da essi rappresentata.

Di fatto stiamo parlando di percorsi preferenziali, per cui le spighe abbassate verso il terreno costituiscono un “sentiero” o comunque uno spazio più agevole da percorrere rispetto al resto del campo.

Un po’ come avviene quando ci troviamo nella nostra zona di comfort o agiamo secondo un’abitudine entro la quale ci è molto più semplice muoverci, perché abbiamo sviluppato circuiti neurali consolidati, nel nostro cervello. Ci muoviamo in un terreno noto, che abbiamo imparato a percorrere e ripercorrere e come tale ci consente un risparmio energetico. Proprio come se passassimo dove le piante sono già abbassate.

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Ci muoviamo in un terreno noto, che abbiamo imparato a percorrere e ripercorrere e come tale ci consente un risparmio energetico

Se cambiare le nostre abitudini, come ad esempio smettere di fumare o andare a correre ogni mattina, può essere una sfida, le cose si complicano ulteriormente quando abbiamo a che fare con le “abitudini relazionali”. Anche nelle relazioni con gli altri abbiamo dei modi di fare consolidati, talvolta dei clichè comportamentali, che se da un lato limitano le sorprese e rendono la relazione “prevedibile”, dall’altro si potrebbero rivelare poco produttivi se non dannosi.

Spesso nel coaching il cliente o coachee, parla del fatto che c’è poco da fare, “ io sono fatto così” oppure”lui o lei sono fatti così” e possibilmente dovrebbero essere gli altri a cambiare….

Con questa prospettiva è molto facile che la relazione si perpetui secondo quello schema, all’infinito.

In tal caso, quello che può avvenire con un cambio di punto di vista è davvero interessante. Proprio come guardare il cerchio nel grano dall’alto e vedere che il campo, in realtà, è sterminatamente grande ed è possibile creare un’infinità di altri disegni, diversi e più funzionali.

È qui che riusciamo a trovare il nostro margine d’azione, la nostra abilità a muoverci diversamente in quel contesto, in una parola la nostra “Respons-abilità”.

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Spesso nel coaching il cliente o coachee, parla del fatto che c’è poco da fare, “ io sono fatto così” oppure”lui o lei sono fatti così”

Nella relazione il clichè può essere modificato, eccome!! Potremmo essere proprio noi a cominciare ed ogni nostra nuova azione, genererà verosimilmente una nuova reazione da parte dell’altro.

Ritenere di essere immutabili è un’idea molto semplice da smontare, basta pensare a come eravamo alcuni anni fa. Siamo sempre identici? Facciamo e pensiamo le stesse cose in tutto? Noi siamo esseri che in qualche modo crescono e si evolvono di continuo, qualche volta in modo diverso da quello che vorremmo e soprattutto disfunzionale rispetto ai nostri obiettivi.

Tanto vale “disegnarci “ un nuovo cerchio nel grano, più funzionale e magari più in sintonia con ciò che desideriamo oggi.

Così anche nelle relazioni che vorremmo modificare c’è sempre un’altra possibilità, basta cominciare dal nostro campo di grano!

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Perché Questione di coaching

… aprendo l’anima così
lasciando uscire quello che
ognuno ha dentro
ognuno ha in fondo a se stesso…

( Questione di feeling di Riccardo CoccianteMogol)
Mina & Riccardo Cocciante

Per quanto il Coach professionista sia ancora una mosca bianca e si tratti tuttora, almeno in Italia, di una professione pionieristica, gli articoli che sollecitano la ricerca di una identità e di una specificità di questa figura, sono davvero numerosi. Anch’io mi sono interrogata su quale fosse il mio personale modo di fare coaching, quali peculiarità potesse avere e ho pensato di cominciare a darmi una risposta, girando la domanda ad alcuni miei coachee.
Una delle risposte più gettonate è stata “Marzia, nel tuo lavoro riesci a mettere insieme cuore e professionalità”, “ ci metti la tua anima”. Anche e soprattutto in azienda!

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Ebbene si, ancora oggi parlare di “anima” in azienda è un passo coraggioso

Ebbene si, ancora oggi parlare di “anima in azienda è un passo coraggioso (ma i Coach di coraggio ne hanno sempre parecchio…..) Nonostante siti e libri sullo sviluppo personale, piuttosto che su un certo tipo di spiritualità (quella per manager, naturalmente), stiano conoscendo una stagione quanto mai fortunata.

Secondo me la “questione” è molto semplice, non esattamente facile, ma dannatamente semplice. Sono più di 30 anni che si parla dell’azienda come un “organismo vivente” in quanto fatta dalle persone che vivono e lavorano al suo interno. E allora perché lavorare con la dimensione della crescita personale, sembra ancora un optional?

È su questa dimensione personale che ritengo sia importante lavorare e il coaching come sviluppo di abilità a rispondere a quanto oggi richiesto dal mondo del lavoro è uno degli strumenti più efficaci. Oggi ci si deve “trasformare” da bruchi in farfalle e saper far emergere il meglio di noi, non è una scelta, è una necessità.

La musica deve cambiare? Forse non del tutto, di certo vale la pena che ognuno faccia suonare meglio che può, la sua.

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La musica deve cambiare? Forse non del tutto, di certo vale la pena che ognuno faccia suonare meglio che può, la sua.

Così ho Così ho pensato di connotare nello stesso modo anche il mio sito e di parafrasare il titolo di una canzone “Questione di feeling”, (interpretata da Mina e Cocciante nel 1985 ) con “Questione di coaching”.

Questa parafrasi mi evoca un concetto “melodico” (catena di suoni che genera un organismo musicale di senso compiuto) del coaching, inteso come armoniosa espressione di sé,

La conversazione tra coach e coachee viene spesso definita anche come una danza sottile e raffinata, il coach fa un passo (domanda potente e ascolto attivo) e il coachee, in risposta ne fa un altro (consapevolezza, apprendimento, azione) fino ad arrivare all’ultima evoluzione (cambiamento nella direzione desiderata dal coachee).

Insomma la musica dell’evoluzione personale!

Certo alcuni accordi sono impegnativi, così come ogni tanto è scomoda la sedia del coachee che per “cambiare prospettiva” fatica. Cercare in sé stessi delle nuove soluzioni, quando siamo indotti a pensare che le soluzioni stiano sempre fuori di noi, può essere un salto quantico.

Inoltre il termine “questióne (lat. quaestioonis, der. di quaerĕre «chiedere, interrogare»….” rimanda al concetto di domanda, strumento principe nel coaching”. Piuttosto che nell’accezione di “Situazione, caso che costituisce un problema, e che viene perciò proposto a sé stessi o ad altri per una valutazione ed eventuale soluzione”. (estratto da diz. Treccani).

Uno degli aspetti che personalmente amo di più nel coaching è che attraverso questa relazione professionale, il cliente (coachee) raggiunge obiettivi straordinari (fuori dall’ordinario) nella professione come nella vita, migliorando autoconsapevolezza e performance. Ma il protagonista è proprio lui, il coachee che apprende strategie d’azione personalizzate e riesce a modificare la sua interpretazione delle situazioni, diventando un nuovo e più efficace Direttore d’orchestra di se stesso.

E allora, alla fine chi è il Coach? Per me “Un Appassionato Catalizzatore di Melodiose Prospettive”.